di Paola Bottero
Sto cercando un’immagine. Una sola. Qualcuno mi dica che non è vero. Quindici anni sono tanti, pieni. Immensi. Qualcuno mi dica che non è vero. Non riesco a sentire la tua voce. Mi annoda dentro. Mi soffoca. Qualcuno mi dica che non è vero. Da due ore ci penso. Placanica presepe, quella sera in cui hai pianto alla fine del concerto perché avevo portato con me Roberta. Qualcuno mi dica che non è vero. La chiesa degli Ottimati quando ho pianto io, davanti alla mia prima volta de la Passioni. Qualcuno mi dica che non è vero. Il giorno dopo, quando ridendo hai corretto due parole in dialetto, “perché quello che hai scritto è troppo bello per annegare nell’errore”. Erano una vocale sbagliata e una consonante di troppo. Qualcuno mi dica che non è vero. Il tuo sorriso scanzonato nel chiosare l’ennesimo distinguo tra il commercio musicale e la passione delle note. Qualcuno mi dica che non è vero. La tua Lucky. Natural. Smettevi e riprendevi proprio come me. A volte le riprese coincidevano. A volte le facevamo coincidere. Qualcuno mi dica che non è vero. Le tue pause nelle lunghissime chiacchierate sull’arte. Sulla bellezza che salverà il mondo. La gioia della condivisione. Gli aperitivi sotto da te, al Mexico. Qualcuno mi dica che non è vero. La prima volta che hai messo su la maschera da Gorilla. O il foulard della zittella di Bocca de rosa (qui mi aiuta la tua voce: non esiste trascrizione in grado di arrotolare e riempire la esse come lo facevi tu). Qualcuno mi dica che non è vero. Il salotto di casa tua quando mi hai passato quel foglietto dove avevi buttato giù le parole del tuo corso delle cose. Perché troppo colpito dal mio piccolo noir, a tal punto da volergli dedicare una ballata che ti ha fatto vincere il premio Nosside. Qualcuno mi dica che non è vero. Quel giorno nel mio ufficio in Provincia, quando mi raccontavi l’importanza di andare al Kalàka Folkfestival ungherese. Lo hai raccontato mille deinde mille. “Io non dimentico”. Qualcuno mi dica che non è vero. Il terrazzo di casa mia, dove tante – troppo poche – volte abbiamo finito una serata di eccessi alimentari tra birre e risate. Qualcuno mi dica che non è vero. Le liti giocose, ma neanche poi tanto, tra la mia sabaudità e la tua calabresità, i giochi di ruoli, i vani tentativi di farci cambiare idea a vicenda. Qualcuno mi dica che non è vero. Il tuo debutto al fianco di Lorenzo. La tua tristezza ogni volta che perdevi una voce, la tua gioia perché ne ritrovavi una sempre più bella. Qualcuno mi dica che non è vero. I tuoi bronzi – perché ne parlavi proprio come se fossero tuoi, e molto prima che Claudio ne proiettasse i profili luminosi sulla facciata del museo della Magna Graecia. Qualcuno mi dica che non è vero. La gioia di condividerti con amici e amiche, anche con persone nate e cresciute a Reggio, che però non ti conoscevano. Qualcuno mi dica che non è vero. Il tuo sorriso fiero a Simone, guardandolo senza farti vedere, quando smontava gli strumenti dal palco. I tuoi silenzi carichi di parole, che precedevano di poco il tuo sguardo che andava a rincorrere chissà quale pensiero all’orizzonte. Ma io e te sapevamo che rincorrevi solo la forza per non far vedere le lacrime agli angoli di quegli occhi che usavi per scavare dentro. Qualcuno mi dica che non è vero. La prima volta che mi hai portata alle prove, perché volevi che ascoltassi l’ultima meraviglia dei Mattanza, e cercavi di convincermi che avremmo dovuto-potuto-voluto lavorare insieme. Qualcuno mi dica che non è vero. Le tue parole mute sull’unico amore possibile, perso e ritrovato e riperso e di nuovo cercato. Le tue ammissioni di colpa, come per lavare via il dolore. Qualcuno mi dica che non è vero. I palchi calcati insieme, le condivisioni e le ricerche, pubbliche e private. Il sentire da narratori, poeti, cantori. Le storie che mettono radici. Qualcuno mi dica che non è vero.
Stamattina, mentre risentivo la replica di ossi di seppia, le tue canzoni, le risate e i saluti carichi di promesse che ti abbiamo mandato lunedì sera, pensavo ad alcune cose che avremmo fatto insieme. Ancora. Come le tante fatte nel nostro cammino insieme. Ne avevamo parlato, avremmo dovuto dettagliare il tutto al mio rientro, visto che sono dovuta scappare di corsa, come ben sapevi. Poco dopo ho cambiato l’immagine di copertina sul mio profilo Facebook: ho scelto dei gabbiani che sfiorano la felicità, e chissà perché ho pensato a te. Tu non eri più, ma io ancora non sapevo.
Sono passate tre ore, poco più, dal giro sms-telefonata con Gabriella: è stata lei la prima. Da allora cerco un’immagine.
Lo faccio rispondendo a messaggi e telefonate, sospesa, galleggiante in un limbo denso che toglie il fiato. Qualcuno mi dica che non è vero. Non ho bisogno di raccontare chi eri, Mimmo. Lo sanno tutti. Non riesco nemmeno a pensare a come possano sentirsi adesso Claudio, Simone e Caterita. E non sono orgogliosa di averti conosciuto. Sono incazzata perché te ne sei andato così, troppo presto. Ci hai lasciati senza respiro. Ti vedo ridere. Ridere mentre brandisci la tua stampella, sfidando il cielo e la rabbia. Ridere con la tua cruciazza che non abbiamo saputo aiutarti a portare quanto avremmo dovuto. Ridere mentre bofonchi qualcosa su vita e morte. Su quando qualcosa deve arrivare in fretta, prima che sia troppo tardi.
Francesco, caro Francesco che come me, come tanti altri, cerchi in apnea di capire cosa fare. Nessuno mi dirà, nessuno ci dirà che non è vero. Mimmo è morto. Mimmo ci ha lasciato. Ora la sua cruciazza è nelle nostre mani.
Cercheremo di essere alla tua altezza, amico caro. Ciao.
4 Comments
I commenti sono chiusi.