Ddl anticorruzione verso il voto finale in Senato: l’intervento del relatore, Nico D’Ascola

da Daniela Gangemi — 

L’Assemblea ha ripreso l’esame del ddl n. 19 e connessi, recanti norme in materia di corruzione. Nella seduta del 19 marzo scorso il relatore, senatore Nico D’Ascola (Area Popolare), ha illustrato il testo proposto dalla Commissione. La prima parte del provvedimento inasprisce le pene principali e accessorie per i reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, indebita induzione, peculato). Sono previsti obblighi di riparazione pecuniaria; attenuanti in caso di collaborazione utile alle indagini; scambi di informazioni tra giudice amministrativo, pubblico ministero e Autorità anticorruzione. La seconda parte del provvedimento riguarda i delitti di falsa comunicazione sociale. Su proposta del Governo, la Commissione ha modificato gli articoli 2621 e 2622 del codice civile, distinguendo la fattispecie delle false comunicazioni sociali delle società quotate da fatti di lieve entità e prevedendo la non punibilità per fatti di particolare tenuità. In sede di replica il senatore D’Ascola ha negato che la norma dell’articolo 8 sia indeterminata: essa punisce con la reclusione da uno a cinque anni false comunicazioni societarie che riguardino “fatti materiali rilevanti”. La circostanza che non sia ancora entrato in vigore l’articolo 131-bis del codice penale, cui fa riferimento l’articolo 9 sui fatti di lieve entità, non costituisce motivo di incostituzionalità. Infine, l’incremento sanzionatorio si giustifica con la crescente riprovazione sociale dei delitti contro la pubblica amministrazione.

GIUNTA PER LE ELEZIONIDi seguito l’intervento che il relatore ha effettuato in aula.

“Da più parte è stato obiettato che l’aggettivo «rilevante», che compare all’articolo 2621 e, parzialmente, all’articolo 2221, porrebbe questioni di costituzionalità. Ovviamente, non torno sulla questione di costituzionalità di natura pregiudiziale ma, siccome la questione è riproposta attraverso emendamenti volti a determinare la soppressione dell’attributo di rilevanza, la questione ha carattere di attualità. Intanto, parto dalla più volte evocata sentenza n. 247 del 1989 della Corte costituzionale per segnalarne, per un verso, la scarsa utilizzabilità a questi fini e, per altro verso, per segnalare come essa non costituisca il termine di paragone, a livello di costituzionalità, dell’attributo «rilevante».La sentenza, ovviamente, pone un problema di costituzionalità con riferimento ad aggettivi ed ad attributi di natura quantitativa, ma indeterminati nel solco di una ovvia giurisprudenza costituzionale che vuole che il limite tra il vietato e il consentito sia segnato in maniera certa dal legislatore e che, quindi, non si scarichi sul giudice la decisione di stabilire ciò che è reato rispetto a ciò che non è reato. Rispetto ad una tale sequenza farebbe ostacolo l’articolo 25, capoverso, della nostra Costituzione oltre che l’articolo 3 ma, soprattutto, il monopolio riconosciuto esclusivamente in capo al legislativo di stabilire ciò che può essere qualificato come reato ovvero no. Tale sentenza afferma un principio ben più complesso rispetto a quello che è stato, al contrario, rappresentato dei suoi contenuti. Essa dice che non è possibile che l’intero carico di disvalore penalistico gravi su elementi indeterminati di natura quantitativa, dovendo, al contrario, ritenersi costituzionale una norma penale la quale si avvalga di elementi quantitativi, ancorché da determinarsi, ma che, con riferimento al disvalore di condotta, sia talmente ricca e pregnante e costituita da elementi che demarcano il consentito rispetto al vietato, da risultare, già sul piano del disvalore della condotta, sufficientemente determinata. Questa norma può essere accusata di tutto tranne che di indeterminatezza sul piano della condotta. Abbiamo una norma che si avvale dell’espressione «fatti», per di più «materiali e rilevanti» – vedremo poi cosa vuole dire l’attributo «rilevante» – che è costruita integralmente su una condotta artificiosa, concretamente idonea ad ingannare e per di più, sul versante della componente soggettivo del fatto, si avvale dell’avverbio «consapevolmente», di cui darò conto da qui a qualche minuto, ma che certamente completa il versante di indeterminatezza della condotta. Si tratta dunque di una norma semmai iper-determinata dal punto di vista dei suoi elementi di struttura, dimostrativi di un disvalore di condotta, già sufficiente a determinarla. Nella parte iniziale del mio intervento, paradossalmente il discorso fatto in ordine alla sentenza n. 247 del 1989 è del tutto inutile e superfluo, perché esso implica che l’espressione «rilevante» venga interpretata quale elemento quantitativo non numerico, dimostrativo di una certa soglia indeterminata, sempre di tipo quantitativo, che rimetterebbe al giudice il compito di determinare oltre quale livello quantitativo la condotta è punibile e, correlativamente, al di sotto di quale livello quantitativo essa non lo è. Dunque, il reclamo dell’efficacia, in quanto ostacolo, della sentenza n. 247 del 1989 parte da un’interpretazione unilaterale dell’attributo «rilevante», assegnandogli per l’appunto – lo ripeto per l’ultima volta – quella funzione di indicazione di dato quantitativo volto a discriminare il consentito dal penalmente rilevante. Le cose non stanno però, assolutamente in questi termini e, per l’appunto, gravo l’attenzione dell’Assemblea su questo avverbio di certezza, dal momento che noi, figli della teoria dell’interpretatio iuris, dobbiamo partire dai dati letterali ai quali l’attributo di rilevanza si accompagna. Rilevante non è attributo di un sostantivo come «quantità», «misura» o «variazione» – ossia di un sostantivo dimostrativo, che già di per se stesso fa riferimento a dati quantitativi – ma è attributo dell’espressione «fatti materiali». Quindi, dire che l’espressione «rilevanti» stia a significare uno spartiacque di tipo quantitativo, già determina un conflitto di tipo letterale, per il fatto che ad essere definita «rilevante» non è una quantità, ma è un fatto. Questo attributo di rilevanza si inserisce nel solco di una giurisprudenza consolidata e certa della nostra Corte costituzionale in materia di principio di offensività, inteso non soltanto in senso astratto – ovvero la norma deve contenere elementi dimostrativi della capacità del fatto di offendere – ma anche in concreto, imponendo la Corte costituzionale non soltanto al legislatore di scrivere norme offensive, ma anche al giudice di interpretarle in aderenza, orientando la sua interpretazione al principio di offensività. Quando si comprende come il dato letterale imporrebbe di fare, che l’attributo «rilevante» è riferito ad un fatto – ovvero ciò che è in grado di offendere il bene giuridico – e che, per l’appunto, esso deve possedere note di materialità – principio che si sposa perfettamente con il correlativo principio di offensività – si comprende come la norma sia organica: essa evoca la necessità di un fatto, impone che esso sia materiale e, ulteriormente, in terza battuta, impone che esso sia un fatto rilevante sul piano della sua capacità di offendere il bene giuridico. Questa espressione – che si può ritenere semmai enfatica, ripetitiva e ridondante, ma non inutile, nella misura in cui la norma deve chiarire ed evitare conflitti di interpretazione – si completa con l’espressione «concretamente idoneo ad indurre in errore» che sottolinea ulteriormente la materialità di una condotta offensiva. D’altronde i delitti di falso, all’interno della cui teoria il falso in bilancio si deve inevitabilmente inserire, si contrassegnano tutti per la necessità di dimostrare ulteriormente in concreto la capacità offensiva della condotta. Evocherei ambiti dogmatici se ricordassi non soltanto il pensiero di illustri penalisti come Marcello Gallo, quindi dell’intera scuola di Torino, ma anche di altri illustri penalisti come Franco Bricola, che proprio sul terreno dei delitti di falso hanno ricostruito la teoria dell’offesa e la necessità di evitare che fatti formalmente conformi al tipo siano punibili, al contrario della necessità di individuare, all’interno della generalista categoria dei fatti conformi al tipo, solo quella meritevole di intervento penalistico, ossia dei fatti effettivamente e concretamente offensivi e quindi tali da determinare in concreto quell’offesa che rende il fatto dotato di una sua reale pregnanza penalistica; e tra l’altro del tutto perfettamente conforme a Costituzione. Quanto poi, all’attributo di rilevanza, basterebbe ricordare una norma che storicamente lo evoca proprio sul piano della offensività: il delitto di falsa testimonianza laddove, all’interno dei fatti apparentemente conformi al tipo, si selezionano soltanto le false dichiarazioni ritenute rilevanti perché davvero in grado di offendere il bene giuridico dell’amministrazione della giustizia nel suo percorso di ricostruzione dei fatti per come effettivamente si sono realizzati, scartando dal cono della punibilità fatti che in realtà non sono per nulla conformi al tipo. Pertanto, se l’interpretazione dell’attributo rilevante connesso a fatti materiali si pone nell’alveo storico del principio di offensività, nessun problema di costituzionalità si può porre perché questo attributo ha il pregio di ribadire la circostanza che non si puniscono fatti apparentemente conformi al tipo ma in realtà non offensivi, che in questo contesto si possono presentare; è chiaro che sarà poi l’interpretazione dell’autorità giudiziaria a risolvere il problema. Ma, non vi si possono calare quelle semplici valutazioni, estimazioni, quei falsi per errore che non sono in grado di determinare alcuna offesa del bene giuridico, vorrei dire quei falsi irrilevanti per dimostrare con l’utilizzazione di un aggettivo contrario a rilevante la portata dimostrativa dell’offesa implicata dall’utilizzazione dell’aggettivo rilevante. Insomma, rilevante non è un qualsivoglia fatto, un fatto apparentemente conforme al tipo ma non offensivo. Rilevante è proprio ciò che l’opposizione reclama debba essere un fatto di false comunicazioni sociali, un fatto effettivamente e concretamente in grado, in maniera rilevante, di ingannare i destinatari delle false comunicazioni sociali e che quindi, pur nel contesto di un reato costruito come reato di pericolo, si pone come reato di pericolo concreto. Quindi, condotte adeguate, concretamente proporzionate rispetto all’offesa.Non intervengo, anche se avrei moltissime cose da dire in merito, sulla questione di costituzionalità concernente il richiamo ad una norma pur promulgata prima e pubblicata poi, quindi dotata di esecutorietà ma non ancora entrata in vigore, perché gli emendamenti non toccano questo aspetto, toccato però dalla pronuncia di questa Assemblea, che ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità, potremmo dire quella che era stata posta con la seconda questione pregiudiziale di costituzionalità.

Intervengo invece, su una questione che ieri ha costituito oggetto di alcune considerazioni negative paradossalmente – e mi sia consentito questo avverbio – poste da una opposizione che invocava una struttura più garantista del testo della norma, entrando in conflitto, questa parte della opposizione, con le stesse premesse dalle quali si partiva. Ebbene, l’avverbio «consapevolmente», come ho detto in Commissione, ma mi permetto molto umilmente di riferirlo anche all’Assemblea, svolge una ulteriore, importante funzione selettiva della punibilità, perché intanto quale prospettiva alla quale l’avverbio potrebbe tendere, potrebbe risultare funzionale ad escludere la forma più tenue di dolo, ossia il cosiddetto dolo eventuale, evocando non una consapevolezza del rischio di un evento, ma dicendo che il soggetto deve essere perfettamente consapevole del fatto, quindi non di un rischio di evento, ma della sua condotta. L’avverbio funziona, in tal modo, nella direzione della riduzione del campo di applicazione della norma e non certo nella contraria direzione della dilatazione della sua applicazione. Peraltro, com’è noto, il dolo ha un versante sostanziale, ma anche un versante processuale, come tutte le componenti delle fattispecie astratte di reato. L’avverbio implica ed in un certo senso richiede una dimostrazione ampia della consapevolezza del fatto e quindi funziona anche da elemento probatorio, da indice di una certa necessità di dimostrazione della consapevolezza del fatto e quindi in un certo senso marca ancora di più quello che è un generalizzato, certamente esistente obbligo di motivazione del giudice su tutte le componenti della fattispecie, comprese le componenti di natura soggettiva. Concludo con un riferimento a tutti quegli emendamenti che riguardano l’incremento sanzionatorio. Nel corso della discussione, è stato frequentemente affermato che l’efficacia di prevenzione generale connessa agli incrementi sanzionatori è un’efficacia dubbia, e quindi resterebbe privo di ogni effetto e di ogni funzionalità un incremento sanzionatorio che non darebbe, dal punto di vista della dissuasione, alcun risultato. Concordo su un aspetto: noi non disponiamo scientificamente di dati dimostrativi di una correlazione e della misura, tra l’altro, di questa correlazione tra gli incrementi delle sanzioni e l’eventuale dissuasione dal commettere reati di questo tipo, quindi non disponendo di dati statistici percentuali, non siamo nella condizione di dire se un incremento sanzionatorio abbia una funzione effettivamente e in che misura dissuasiva quanto all’eventuale commissione di fatti di reato dello stesso tipo.

Propongo una riflessione sul fatto che l’incremento sanzionatorio, però, non trova una sua giustificazione penalistica adeguata soltanto sul versante della prevenzione generale, ma trova una sua giustificazione ancora più storica e risalente sul versante retributivo. Intende dire il relatore che più crescono nella società l’intolleranza ed il rifiuto di determinati reati, maggiore è la giustificazione agli incrementi sanzionatori”.