Cara ragazza di Melito, perdonaci di tanto clamore: serve solo a chiamarci fuori dal tuo incubo

di Paola Bottero —

Ti chiamerò AnnaMaria, cara sedicenne allora tredicenne che sei riuscita a fermare il tuo incubo, e che stai scoprendo che fuori dall’incubo ci sono altri incubi in agguato. Ti chiamerò AnnaMaria perché ad AnnaMaria Scarfò ho pensato appena il tuo incubo è diventato notizia, obbligando a costruire nuovi incubi, veri o inventati poco importa, ma sempre puntati alla ricerca di colpevoli “altri”. I colpevoli ci sono. Sono otto, abbiamo visto e rivisto le loro foto, conosciamo i loro nomi e le loro “appartenenze”. Eppure sembra non bastare.
Come allora, in una storia così simile alla tua, anche con te ci si è concentrati subito su altro. Le colpe dei genitori. Le colpe della società. Le colpe della scuola, degli educatori, dei religiosi. Le colpe di chi sapeva e non denunciava.
Ci sono davvero poche differenze tra Melito e San Martino di Taurianova. Pochi chilometri, la stessa targa sulle macchine, lo stesso odore di un’arretratezza che alcuni chiamano ‘ndrangheta, altri Calabria. Ma che altro non è se non la voglia di chiamarci tutti fuori dal tuo incubo. Perché se ne creiamo altri ci sembra di poter sminuire il tuo. E poi non ci pensiamo più.

Ti chiamerò AnnaMaria perché come lei hai avuto il coraggio di ribellarti. Di fregartene di quello che la gente può dire.
Lo sapevi prima, tu. Prima di tutti gli opinionisti, i commentatori, i vicini di casa, i giornalisti ai quali ti sei data in pasto. Che ti poteva importare di quello che avrebbero detto, dopo il tanto che sicuramente sentivi giorno dopo giorno, pesante come un’ombra che ti rincorreva quando ancora cercavi la forza per dire basta? Che ne sappiamo noi dello schifo che ti sei portata dentro? Che ne sappiamo della rabbia perché nessuno capiva, perché sembravano tutti sordi, ciechi e muti di fronte al tuo incubo? Che ne sappiamo del ribrezzo nei confronti di ogni cosa, che per più di due anni hai interpretato come un ribrezzo nei tuoi stessi confronti, come se fosse una tua colpa essere nata femmina in un posto come Melito, aver creduto in un innamoramento adolescenziale che da sogno è diventato incubo?

Ti chiamerò AnnaMaria perché tu come lei sei vittima di questa società dell’apparenza e della fiction, dove è fin troppo facile scrivere sceneggiature, costruire casi, urlare allo scandalo, distruggere vite, persone, amor proprio, almeno fino a quando la notizia ha una buona popolarità social, fatta di hastag e di like. E dove è altrettanto facile dimenticare in fretta ogni cosa: insulti, dita puntate, parole dette e non dette, giudizi e pregiudizi, conta delle fiaccole presenti e assenti nelle vie del paese reggino. Ma, soprattutto, dove è fin troppo naturale dimenticare le vittime. Il loro dolore. Il vostro dolore. Il vostro bisogno di iniziare di nuovo a respirare.

Ti chiamerò AnnaMaria perché sono certa che tu come lei, dopo essere riuscita a fermare il tuo incubo, riuscirai anche ad uscirne. Dal tuo incubo e dai tanti incubi che ti abbiamo caricato addosso, senza fermarci neppure un attimo a pensare che avevi tredici anni, allora. Ed oggi pochissimi di più. A te, che sei quasi sparita dalla tua storia e dal tuo incubo, volutamente impastato dalle urla vane di mass e social media alla ricerca di mostri capaci di farci sentire meno mostri di quel che siamo, non posso che augurare di riuscire, proprio come AnnaMaria, a ricostruirti una vita. Hai dimostrato di essere in grado di farlo. Chissà se riuscirai, un giorno, a perdonare questo clamore (inutile e di cui, questo sì, dovremmo vergognarci) arrivato quando ormai l’incubo aveva messo radici dentro di te. Forse quando, e di questo ne sono certa, riuscirai ad estirparle del tutto.
Perdonaci, se puoi. Con te, come con AnnaMaria, abbiamo dimenticato il senso di umanità che avrebbe dovuto obbligarci a tutelarti. Come se cancellando i tuoi pensieri e le tue emozioni, e focalizzandoci su altro, il tuo incubo potesse sparire. O quantomeno non appartenerci.