Il cuore per mediare tra cervello e mano: il percorso artistico di Metropolis

di Paola Bottero

“A mediare tra il cervello e la mano deve essere il cuore”. Un incipit e una chiusa eloquente, questa verità così contemporanea scelta 90 anni fa da Fritz Lang e dalla moglie Thea Von Harbau per dare un senso, più che una morale, alla narrazione distopica di Metropolis, il film archetipo di tutta la cinematografia di fantascienza girato nel 1927, a cavallo delle due guerre mondiali.

Ce n’è tanto, tantissimo, di cuore nel progetto espositivo di Angela Pellicanò, Ninni Donato, Felipe Perez e TechneLab che a Metropolis si ispira per superarlo. Metropolis – Collective Art Project è molto più di un progetto. È la voce corale che si fa mostra dopo mesi di lavoro. È un percorso da fare e da rifare insieme alle opere d’arte e agli artisti, che si mettono vicino a te e ti raccontano cuore ed emozioni, tutti i giorni (festivi esclusi, dalle 11 alle 19), nella galleria di Techne Contemporary Art, via dei Correttori a Reggio Calabria. L’inaugurazione di mercoledì scorso è stata un trionfo. E non poteva essere altrimenti.

I lavori di Angela e Ninni, protagonisti della narrazione storica e contemporaneamente futuristica che ti prende per mano appena scendi i gradini della galleria e ti rimane dentro con mille domande anche dopo la visita, sono un perfetto equilibrio tra tecnica (la mano di Fritz/Tea) e ricerca (il cervello). Ma quello che viene fuori è l’urlo del cuore. Un urlo discreto ma continuo, un tarlo che ti accompagna con i colori e i bianconeri sapientemente mescolati in quadri, foto ed elaborazioni fotografiche, ceramiche, resine morbide e dolci che congelano denunce forti e urgenti.

Il mio percorso inizia con Rolling over trench, stampa fotografica inglobata in resina, ribaltamento costruito da Ninni Donato con una predominante magenta che congela e astrae i concetti più crudi della guerra. Ma è solo l’inizio. La fine, se si vuole seguire il percorso del progetto. I Modelli umani sono il terzo nucleo espositivo. Ma il progetto è un percorso ciclico: inizia dove finisce. E termina dove ricomincia. “Uomo privato della sua umanità è relegato al suo essere funzionale alla causa (la guerra giusta) con in fondo al percorso la promessa di un mondo migliore”. E poi tondi perfetti, inglobati nella resina, in sequenza: particolari del fiume Crati, con una foschia che sembra di poter toccare solo allungando la mano. E Skin. #1, #2 e #3. Sembrano uscite da Metropolis (il film) le tre stampe fotografiche, sempre inglobate nella resina, in cui lo stesso “modello” indossa paradossali armature. E invece sono modelli umani rivestiti di corazze, avulsi dal paesaggio. Molto più freddi e disumani delle macchine.

Sono un po’ ovunque, le macchine. Nel percorso progettuale sono la partenza, il primo dei tre nuclei espositivi: “la cultura di massa e la manipolazione linguistica come funzionali al sistema imposto dalla società–macchina”. Ma sono ovunque. Sono collante e sono domanda. Sono spiegazione e sono negazione. Sono gli ingranaggi riprodotti nelle ceramiche di Felipe Perez. Antropomorfi come le peggiori distopie. Immobili eppure in continuo movimento. Lucide, nere. Sono le altre ceramiche di TechneLab. Belle e terribili.
Ciascun pezzo fa parte della scultura-installazione in ceramica, costruita da parti funzionali o residui di sistemi di produzione: “costituiscono il primo nucleo e aprono al tema del lavoro dell’uomo, o più precisamente alla forma del lavoro, che poi è la sua essenza: anche se il mondo è inondato dagli oggetti della produzione, la forma della produzione, le infrastrutture, i luoghi e i sistemi rimangono sconosciuti, il lavoro resta paradossalmente un tema secondario nell’arte, riapparendo al più nella sua perdita di funzione, come archeologia industriale o rovina”. E l’amputazione ricercata dagli artisti è un qualcosa che ti monta dentro, piano piano, tra “estraneità dell’autentico e inadeguatezza della rappresentazione”.

Le emozioni forti arrivano passo dopo passo, opera d’arte dopo opera d’arte, “frantumando la propaganda tra la prima e la seconda guerra”, come spiega Angela Pellicanò. La sua certezza che “viviamo in un mondo virtuale” l’ha portata a cercare la stampa di propaganda dell’epoca (e siamo di nuovo al cervello di Fritz/Tea) per frantumarlo in striscioline sottilissime (la mano) che prendono forma sulle sue tele. Composizioni che vanno oltre il collage, oltre il dipinto, oltre l’incrocio di collage e olio, per ricostruire la sua distopia personale. Storica, sì. Concettuale. Sociale. Ma anche e soprattutto personale, perché da ogni opera, da ogni particolare in cui ci si perde per ritrovarsi, esce Angela e la sua urgenza di denuncia. Cattiva e crudele come il peggiore dei pensieri. Cattiva e crudele come solo la realtà sa essere. Realtà aumentata? No. Realtà. Nuda e cruda.

C’è la madre che risucchia da sotto e si fa materia, esce dallo spazio circoscritto consueto e diventa orizzontale, verticale, concava e convessa: basta cambiare punto di osservazione. Mangia, fagocita tutto da sotto, nascosta grazie alla cecità delle persone/ombre che vivono sopra, a Metropolis, ignorando il sottosuolo cittadino. C’è la città dove le altezze si fanno coni, piramidi custodi di morte dei sentimenti. C’è la bambola bambina che vola sopra l’industrializzazione delle ciminiere, ferme nella resina di un piatto. C’è la città fortezza, medievale perfezione di regime, che succhia il peggio dalle viscere della terra, dove sono nascosti non solo le peggiori propagande, ma anche i peggiori eccidi. Equilibratissimi disequilibri in cui il sotto e il sopra si confondono e si annientano, alimentandosi l’un l’altro e continuando a sopravvivere in uno stato vegetativo in cui diventa normale avere un preservativo sopra la testa.

“Un regime totalitario che impone un funzionamento della società e dei suoi componenti come se, razionalisticamente, l’uomo potesse essere totalmente padrone di sé. È scontata la metafora di una società umana rappresentata quale organismo composto di organi (istituzioni), tessuti (gruppi) e cellule (individui) in cui qualcosa devia dalla sua sede naturale generando un quadro sociale patologico, in una società disfunzionale”.
È scontata anche la domanda che ha mosso il cuore per far lavorare cervello e mano: “a quale mondo distopico appartieni?”. E la risposta può arrivare solo se prima si impara a porsi la domanda. Togliendosi dagli occhi i ritagli della propaganda. Le domande: quelle che ti sospingono nel passaggio da una stanza all’altra, da un’opera d’arte all’altra, da un’emozione all’altra. Sarebbe davvero un peccato perdersele.