di Paola Bottero
Tra fiori, mimose, auguri social, eventi, incontri, proteste, cene e spettacoli, c’è una cosa importante che capita oggi. E non poteva capitare in un giorno diverso da questo 8 marzo, per restituire alla Giornata della Donna senso e dignità.
Esce al cinema l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, Nome di donna (sceneggiatura scritta con Cristiana Mainardi): il primo in assoluto ad affrontare il tema delle molestie sul lavoro, in modo delicato eppure durissimo, perché la sua violenza non si vede, ma si sente. E fa male. Impossibile uscire dai 90 minuti di lotta contro i troppi stereotipi della nostra società nello stesso modo in cui si è entrati: Nome di donna pretende risposte emotive ed interiori. Senza sconti e senza dilazioni.
Ci sono catene invisibili così solide da riuscire ad imprigionare, oltre l’anima della vittima intorno a cui si sono strette comodamente, anche l’anima di chi, pur non vedendole, ne avverte la presenza. Sono catene che inchiodano e obbligano a porsi domande, a cercare risposte e non più assoluzioni.
La delicatezza – quasi un acquerello appena accennato su carta a grana finissima – con cui Marco Tullio Giordana prende per mano Nina (una bravissima Cristiana Capotondi) e racconta, in modo asciutto e preciso, una storia di violenza e di abuso (di potere ancora prima che sessuale) è un crescendo senza sconti che lascia sul campo tantissime vittime. A partire dagli spettatori: il regista li imprigiona con le catene sottili degli stereotipi e delle impunità culturali che fanno abbassare gli occhi e chiudere la bocca alle vittime, poi li fa respirare con la leggerezza di una passeggiata in bicicletta, di quotidianità semplici, infine inizia a stringere sempre più forte. La carta diventa cartone, i segni diventano pesanti, di tempera, pastelli e olio, i colori cupi come l’urlo di Munch. E inizia l’apnea.
La voglia di libertà di Nina diventa la sua colpa, la sua solitudine e la sua prigione. La trama scivola via come la bassa lombarda, le anse del Ticino ammorbidiscono e per contrasto esasperano equilibri che vengono meno, baricentri che si spostano, emozioni che non riescono più a rimanere soffocate. Maestosa l’interpretazione di Bebo Storti, il don Roberto che fino all’ultimo è convinto di operare per il bene, in un territorio privo di confini dove potere e interessi economici sono gli unici valori tangibili. E che dire di Valerio Binasco, il molestatore che non smette mai di credere di poter aggiustare tutto?
Nella parte finale l’evoluzione del disegno emotivo che Giordana costruisce dentro lo spettatore impone la tridimensione di una scultura, che è architettura e voglia di giustizia. Con un finale che offusca il sole. «Ce l’ha messo Dino Risi» ha spiegato il regista all’anteprima di qualche giorno fa, a Roma. Un’apnea che soffoca il respiro finale.
«C’è una bella differenza» scrive Marco Tullio Giordana nelle note di regia «fra violenza e molestia, e non bisogna dimenticarlo. Ma sempre di ingiuria contro la persona si tratta, non semplice disinvoltura o prepotenza. È infatti qualcosa che non riguarda la “guerra” tra i sessi, o non soltanto. È qualcosa invece che tocca la disuguaglianza, il potere che qualcuno esercita su qualcun altro. In questo senso ha molto più a che fare con la lotta di classe (e pazienza se la parola sembra antiquata) che con la prevaricazione sessuale. Già immagino le obiezioni: e allora? Non si può più fare la corte? Ci vuole la liberatoria prima di azzardare una carezza? Inutile nascondersi dietro a un dito: ognuno, uomo o donna che sia, sa benissimo cosa sta succedendo, sa qual è il limite, la linea d’ombra. Chi la oltrepassa sa benissimo di violare un confine». Quel confine il regista lo fa passare a ciascuno di noi, facendoci comprendere nel profondo quali siano le nostre colpe. «Omertà» spiega Giordana «è una parola italiana intraducibile nelle altre lingue». “Ai miei tempi si chiamavano complimenti” chiosa Adriana Asti.
Serve un ribaltamento culturale, lo diciamo da tempo. Giordana con il suo film ci offre la direzione: «ho fiducia che le cose possano cambiare, altrimenti non farei cinema».
Tra le duecento sale nazionali in cui sarà presente rispondono all’appello in Calabria La Nuova Pergola di Reggio e il Modernissimo di Cosenza. Sono solo due, ma vale davvero la pena di riempirle. Come ci diciamo sempre, tra di noi, non solo oggi: siamo donne tutti giorni. Ed abbiamo bisogno di film come Nome di donna ogni giorno.