da don Ennio Stamile*
Siamo alle solite! Ancora una volta un vile gesto intimidatorio. Ad essere preso di mira questa volta non è un rappresentante delle forze dell’ordine, un giornalista, un sacerdote, un esponente politico, ma la signora Teresa Lochiatto vedova Luzza, alla quale nel pomeriggio di ieri lunedì 21 maggio è stata recapitata una lettera anonima contenente tre proiettili di pistola e la foto del figlio hjhgjhgjPino, vittima innocente, ucciso vent’anni orsono dalle cosche della ‘ndrangheta vibonese.
I componenti delle ‘ndrine sono capaci di tutto, anche di simili gesti inumani. Perché solo chi apparentemente ha sembianze umane, può essere capace di così atroce gesto: rievocare il dolore di un figlio ucciso, con la minaccia evidente che l’altro figlio, Matteo, da sempre impegnato in Libera, farà la stessa fine.
Alla signora Lochiatto, a Matteo Luzza, attualmente responsabile regionale del settore memoria di Libera Calabria, vanno la sincera vicinanza e solidarietà dell’intera rete di Libera regionale. In Calabria c’è chi vuole impedire che continui il nostro impegno perché giovani, imprenditori, commercianti, giornalisti, sacerdoti, scuole, associazioni, sindacati, facciano fronte comune per impedire il dilagare della ‘ndrangheta. C’è anche chi ritiene che con tali gesti intimidatori si ritorni ad un clima di paura e di omertà, che non ci si costituisca più parte civile nei processi di ‘ndrangheta o per richiedere il ristoro dei danni nei confronti dei carnefici.
Lo vogliamo ribadire con forza anche attraverso tale comunicato, anche se lo faremo nei modi e nei tempi opportuni ad Acquaro: il nostro impegno continua, consapevoli che solo attraverso una cittadinanza attiva e responsabile, solo attraverso il riappropriarci del nostro passato – come insegnava Antonino Caponnetto – potremmo riappropriarci anche dell’avvenire di questa nostra Terra. Tale impegno, sempre secondo colui che ha reso operativa l’idea del pool antimafia di Rocco Chinnici, va assunto “con decisione, fermezza, serenità, ma anche con amore e speranza”. Questo l’invito che rivolgiamo a tutti coloro i quali ritengono di doversi spendere per una Calabria libera dalla ‘ndrangheta dalla corruzione e da ogni forma di violenza e di sopruso.
*referente regionale Libera Calabria
chi è Matteo Luzza
dalla tesi di laurea di Rita Greco Università Magna Graecia di Catanzaro
Matteo Luzza (nella foto con don Luigi Ciotti) è un esempio di uomo coraggioso nella lotta alla ‘ndrangheta, testimone dell’atroce violenza subita dal fratello Giuseppe, il 15 gennaio del 1994. Matteo sostiene che la morte del fratello è stato un avvenimento traumatico, devastante, inspiegabile per una famiglia pulita e corretta come la sua. Pino, cresciuto ad Acquaro, nel Vibonese, lavorava con il padre nell’impresa edile di famiglia, era un ragazzo disponibile, volenteroso. Amava il suo paese, si impegnava durante il tempo libero ad organizzare le attività della Pro Loco. Per questo motivo la sua scomparsa lascia tutti senza parole, senza una spiegazione. Siamo a metà degli anni ’90, periodo in cui in Calabria, dopo decenni di faide fra i principali clan del Reggino, si avvia una grande espansione economica della holding criminale della ‘ndrangheta. Solo in Calabria dal 1991 al 30 giugno 2007 vengono sciolti per il rischio di condizionamento mafioso 38 comuni, di cui 5 in provincia di Vibo Valentia, dove era ed è ancora oggi forte il dominio della famiglia Mancuso, una delle cosche considerate dagli inquirenti fra le più pericolose della Calabria. Numerosi furono gli scontri tra le diverse cosche per il controllo del mercato della droga, del territorio e dei business tradizionali. Sono anni in cui in questa provincia la ‘ndrangheta è in trasformazione e la vita delle persone è funzionale ai disegni criminali. E la storia raccontata da Matteo ci dimostra perfettamente questo scenario criminale, che si arricchisce distruggendo vite umane. Pino, era un normalissimo adolescente, poco più che ventenne, caduto solamente nell’errore di innamorarsi di una ragazza a lui non destinata. La sorella della ragazza, era la moglie del boss Antonio Gallace, oggi all’ergastolo con sentenza resa definitiva dalla Corte di Cassazione. Gallace considerava “roba sua? la vita della cognata. Spettava a lui in quanto uomo d’onore, decidere con chi la giovane avrebbe dovuto sposarsi. Sicuramente non con Pino, ragazzo estraneo agli ambienti ‘ndranghetistici.
Pino fu ucciso brutalmente dai killer della Piana. Dopo essere stato stordito fu gettato in buca, cosparso di benzina e bruciato insieme a dei tappetini di gomma d’auto e, ancora non soddisfatti, i killer a turno sparavano sul suo corpo. Una violenza atroce, spropositata e gratuita. Pino, non era un criminale, era solo un normalissimo giovane innamorato della vita, ma la normalità purtroppo in Calabria è un lusso che non è concesso a molti. Secondo la testimonianza del fratello Matteo, Pino, quasi tutte le domeniche, per abitudine, faceva un giro al mercatino di Vibo, per incontrare i suoi amici, ma il giorno del 15 gennaio non fece ritorno. Non era sua abitudine non avvisare e per questo motivo scatta subito la denuncia da parte dei familiari. Nessuno dei suoi amici sapeva nulla e furono avviate le ricerche. Tutti si chiedevano che fine avesse fatto, se avesse visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Due mesi di domande, tormenti, di continue manifestazioni e visite. Nessuno aveva fatto capire la motivazione vera e propria della sua scomparsa. In giro si diceva solamente che Pino frequentava da pochi mesi una ragazza. Lui andava spesso ad Arena con la macchina del padre per incontrarla. I soliti primi passi di una fresca conoscenza tra due giovani innamorati. Ma quelle innocenti passeggiate, in un paese piccolo, non rimasero inosservate. Nei due mesi successivi alla scomparsa di Pino, è stata la stessa ragazza ad aprire agli inquirenti la strada giusta, che portò agli arresti prima e al ritrovamento del corpo in seguito.
Il corpo fu ritrovato il 21 marzo 1994, in una buca nella campagna di Dinami, su indicazioni dell’esecutore del delitto, Gaetano Albanese. Messo alle strette dai carabinieri nell’indagine che ha coinvolto le zone di Laureana di Borrello, Rosarno, una volta divenuto collaboratore di giustizia ha dichiarato che l’accaduto è avvenuto per fare un favore al boss Antonio Gallace, poiché solo lui poteva decidere a chi destinare la ragazza. La ragazza ancora oggi vive con la madre ad Arena, dopo la morte di Pino non si è legata più a nessun uomo, non si è più sposata. Questo omicidio era un motivo di orgoglio per il mandante, tutti all’interno dell’organizzazione mafiosa dovevano sapere che era stato lui ad ordinarlo. Tante volte si pensa che una persona venga uccisa per qualche tipo di legame con questo ambiente, ma in realtà si può morire anche da innocenti. L’omicidio l’hanno fatto in sette, uno di questi, ancora minorenne, inviò una lettera alla famiglia Luzza per confermare il favore fatto al boss nonostante l’innocenza del ragazzo.
I primi arresti sono stati fatti dopo due anni, nel ’96, ma per mancato riscontro gli arrestati sono stati subito scarcerati.
Il primo processo si è svolto nel ’98-’99. La Corte Suprema di Cassazione ha poi confermato l’ergastolo a vita per Antonio Gallace, gli altri collaboratori sono stati condannati a pena superiore ai 20 anni, il minorenne a 22 e Gaetano Albanese a 26 anni di pena. La fase del processo è stata devastante per Matteo e la sua famiglia, poiché nei tribunali in quei tempi, la parte della vittima si sentiva sola ed emarginata. Nei processi i delinquenti erano sostenuti da tutti i familiari, mentre il ruolo delle vittime era sempre marginale.
Questo sistema negli ultimi anni ha manifestato un cambiamento. Oggi, chiunque può partecipare in questi processi, in modo che la vittima non si senta più sola. Per Matteo essere parte civile in un processo è anche una forma di riconoscenza verso le forze dell’ordine che si impegnano tanto a contrastare tale fenomeno. «Costituirsi parte civile significa affermare: voi ci state danneggiando e se è possibile noi danneggiamo voi» (Matteo Luzza). La fase del processo è stata vissuta con la voglia di ottenere giustizia e restituire alla vittima dignità e verità. Ciò che ha cambiato il processo di rielaborazione di Matteo e della sua famiglia è stato l’incontro con Libera, rete di associazioni che si occupa di tutte le attività necessarie a mantenere vivo il ricordo delle vittime innocenti delle mafie. La data del 21 marzo è la stessa scelta da Libera per ricordare quanti come Pino sono stati travolti dalla violenza delle mafie. Matteo ha visto per la prima volta don Luigi Ciotti – presidente e fondatore di Libera – in televisione e preso dalle sue belle parole ha deciso di aprirsi. Matteo sentiva la necessità di reagire a quel dolore, a quella solitudine che tormentava il suo stato d’animo. Matteo era timido inizialmente e, nel rapporto speciale con suo fratello, trovava la sua forza.
I primi periodi dopo l’accaduto sono stati tragici, ma l’incontro con Libera l’ha portato a cercare un senso a quella morte. Il cambiamento è stato quello di trasformare la rabbia e la solitudine in altro. Per Matteo all’inizio non è stato semplice parlare di quei brutti ricordi, ma il suo racconto l’ha aiutato a non rimanere isolato nel dolore. La rete di Libera che ha creato questo movimento sulla memoria, oggi ha permesso di rendere pubblico un omicidio, che anche se privato riguarda tutti, poiché riguarda il nostro contesto territoriale. L’importanza di questo movimento è stato rendere queste memorie da private, pubbliche, come forma di resistenza. Secondo quanto detto da Matteo, mogli di diversi mafiosi si sono rivolte a Libera per chiedere un sostegno nell’allontanamento dei propri figli dall’ambiente di appartenenza – come dimostra il percorso individuato dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria – ciò dimostra che si arriva ad una certa consapevolezza del pericolo, nelle famiglie di ‘ndrangheta. Una percentuale alta di questi minorenni, dopo aver scontato la pena, cambia completamente vita, mentre gli adulti criminali difficilmente si lasciano aiutare.